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Fyre Festival: un classico caso di frode, cialtroneria e darwinismo.

Aggiornamento: 2 ott 2020


Don’t Believe The Hype”, cantavano (si fa per dire) i Public Enemy nel 1988, in quella pietra miliare del rap che è “It Takes a Nation of Millions To Hold Us Back”. Non credere alle "montature" potrebbe essere la morale di “Fyre - The Best Party That Never Happened”, documentario prodotto da Netflix e pubblicato da poco. In realtà, però, la vicenda raccontata nel film ha diverse chiavi di lettura interessanti...

Fyre Festival Poster

Procediamo con ordine: all’inizio del 2017, grazie ad una campagna teaser su Instagram che vide il coinvolgimento di importanti influencer del mondo della moda e del lusso come le supermodelle Kendall Jenner, Bella Hadid ed Emily Ratajkowski, iniziò a montare molto rapidamente un grandissimo hype sul Fyre Festival, un nuovo festival musicale alle Bahamas.

Venne presentato e promosso come una versione extra-lusso del Coachella: soggiorno in cottage di lusso, yacht, party strappamutanda insieme a note personalità della musica e dell’entertainment, servizio di catering gourmet con pasti preparati da chef stellati. La location nell’isola privata di Pablo Escobar, inoltre, dava quel tocco esclusivo e trasgressivo che contribuì al sold-out dell’evento nel giro di 48 ore. Assolutamente marginale l’aspetto musicale, affidato ad una line-up provvisoria veramente mediocre.

Tanto per non spoilerare troppo, anticiperò solamente che il festival non fu proprio un successo.

Il film ne analizza le varie fasi esecutive, dalla comunicazione patinata ai problemi logistici, fino all’arrivo sull’isola dei primi partecipanti con il conseguente caos viralmente tragicomico.

Fyre Festival Lego Playset

Da fondamentalista del disegno strategico, i due aspetti che più mi hanno disturbato durante la visione del film sono stati l’assoluta mancanza di una benché minima progettazione e l’ignoranza imprenditoriale dei due organizzatori. Due aspetti diffusi con cui, a livello sicuramente meno eclatante, mi è capitato di avere a che fare almeno un paio di volte nelle mie passate esperienze lavorative.

Il Fyre Festival, nella recente letteratura del marketing aziendale, è stato definito un flop, un clamoroso epic fail. Nell’altro documentario dedicato alla vicenda e distribuito sulla piattaforma Hulu, l’accento, a partire proprio dal titolo, è puntato invece sul concetto di frode informatica, reato per cui è stato in effetti condannato Billy McFarland, organizzatore del festival insieme al rapper senz’anima Ja Rule.

Secondo quanto si capisce dal racconto, l’intera vicenda è stato un mix di frode (sicuramente nella fase di fundraising nei confronti degli investitori) e di un’enorme quantità di cialtroneria.

Non si può dire che il Fyre Festival sia stato un fallimento assoluto a livello di marketing strategico: McFarland, ad esempio, ha messo a fuoco molto bene il posizionamento del proprio brand, individuato perfettamente i buyer personas e sfruttato al meglio e nel modo corretto l’influencer marketing. Nella fase iniziale sembrerebbe veramente convinto di riuscire a portare a termine l’impresa, motivato e in un certo senso ingannato dalle passate esperienze di successo.

Allo stesso modo, la frode presupporrebbe la premeditazione; ma non posso credere che l’imprenditore in questione pensasse veramente, fin da subito, di poter dare ai suoi ospiti tende da terremotati e panini con formaggio fuso al posto di cupole geodetiche e piatti gourmet, sperando di farla franca.

Voglio pensare che il passaggio da CEO di una start-up di successo nel campo delle app di prenotazioni o in quello delle carte di credito fighe per millennials benestanti, al ruolo di organizzatore di un festival di quella complessità, sia stato un po’ troppo impegnativo per quel demente viziato di Billy McFarland. Perché forse non basta ricercare su Google come affittare un palco (pare che il giovane Billy avesse fatto proprio così), per diventare un esperto di concerti.

Tornando all’apertura di questo post, per quanto riguarda la morale della favola e tutte le eventuali riflessioni di carattere social/sociologico sulla realtà effimera dei nuovi mezzi di condivisione di massa o su come ci facciamo influenzare da selfie, video, successo facile e altre cagate, citerò semplicemente una frase pronunciata verso la fine del film: “se spendi migliaia di dollari per andare a vedere i Blink-182… è colpa tua. Quello è darwinismo allo stato puro”.

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