C’era una volta il "Tunnel", storico club della vita notturna milanese che, dalla sua nascita a metà degli anni ’90 fino ai primi anni del nuovo millennio, ha rappresentato per quelli della mia generazione un punto di riferimento della scena musicale underground. Underground in tutti i sensi: per la selezione musicale non certamente mainstream e per la location sotto i binari della Stazione Centrale.
In realtà il Tunnel Club esiste ancora. Non lo frequento più da quasi una ventina d’anni, ma posso facilmente intuire che abbia mutato l’attitudine iniziale trasformando nel tempo il proprio modello di business. Ed è normale che sia così, visto che i modelli economici legati al mondo della musica sono cambiati radicalmente negli ultimi 25 anni.
Il payoff con cui era nato il Tunnel nel ’95 - “Uscita Nuovi Suoni” - sottintendeva la vocazione di un club in cui i soci potevano ascoltare musica nuova, mentre gli artisti o le case discografiche potevano fare promozione.
Con la tessera del Tunnel, io e tanti altri studenti universitari come me, potevamo entrare il più delle volte gratuitamente nel locale per assistere agli show-case del gruppo di turno: l’evento live, intimo ed esclusivo, serviva quindi a promuovere e far vendere i CD. Oggi invece circa il 75% delle entrate di un artista musicale provengono proprio dalla vendita dei biglietti per eventi live e tour. Negli anni ’90 era meno di un terzo.
Come sostiene Crispin Hunt, Presidente di The Ivors Academy, "al giorno d’oggi non esiste una promozione, non c’è nulla da promuovere, tutto è distribuzione”.
Se si analizzano i dati di crescita del mercato discografico, si può capire che oggi il vero potere dell’industria musicale sta nella distribuzione, ovvero nel mezzo di trasporto e nell’enorme velocità di connessione verticale messa a disposizione dallo streaming.
Secondo il report con cui l’IFPI (International Federation of the Phonographic Industry) fotografa annualmente lo stato della musica nel mondo, il mercato discografico mondiale è cresciuto del 10% nell’ultimo anno, per un valore complessivo di 17 miliardi di euro. I principali guadagni vengono proprio dallo streaming, che rappresenta il 47% di tutto il mercato discografico; mentre i proventi dal supporto fisico si fermano al 25%, con vendite in calo dell’11% rispetto al semestre precedente. Gli LP segnano un +6%, ma la storia (che ancora qualcuno racconta) delle vendite dei vinili che hanno superato quelle dei CD… è, appunto, una storia.
In Italia il dato relativo allo streaming è ancora più pesante: da solo genera 49 milioni di euro, pari al 63% del sistema discografico. Altro dato interessante: se lo streaming aumenta la sua quota di mercato di anno in anno, il resto del canale digitale è in caduta libera (6% del mercato italiano). D’altra parte, che senso ha ormai pagare per ogni singolo download quando posso abbonarmi per sentire tutto ciò che voglio?
Ai tempi di “L’era dell’accesso”, Jeremy Rifkin prevedeva il graduale passaggio da un’economia dominata dai concetti di bene materiale e proprietà, ad una in cui diventa preferibile e fondamentale avere accesso all’informazione o al servizio. Oggi, a 20 anni esatti dalla pubblicazione del testo di Rifkin, questo passaggio si sta definitivamente compiendo con le piattaforme di streaming (Netflix, Spotify & C.) che danno accesso illimitato ad una vastissima libreria audio e video, rendendo di fatto inutile il possesso dei singoli prodotti artistici e dei relativi supporti materiali.
Se da un lato questo cambiamento ha reso vincente il modello dello streaming, dall’altro ha scardinato il modo di relazionarsi alla musica che più o meno aveva funzionato fino ad ora.
Molto spesso non ce ne rendiamo conto, ma oggi trascorriamo la maggior parte del nostro tempo ascoltando musica. Il contenuto più trasmesso dalle radio? Musica. Sentiamo musica di sottofondo nei negozi, bar, ristoranti, sale d’attesa, supermercati, ascensori, palestre. La ascoltiamo in treno, in metropolitana, in ufficio, sui canali satellitari e sotto la doccia. La colonna sonora è uno degli elementi che contribuisce a farci amare una serie tv o un film e in quasi tutte le pubblicità più belle e riuscite degli ultimi anni, la scelta musicale ricopre un aspetto fondamentale e complementare allo storytelling (penso ad esempio a “The Boy and the Piano”, lo spot di John Lewis & Partners con Elton John, oppure al recente spot natalizio di Apple con il tema di “Up!” di Michael Giacchino).
In media ogni italiano ascolta 18 ore di musica alla settimana: più di 50 canzoni da 3 minuti al giorno! Questa sorta di bulimia musicale ha come principale effetto il calo dell’attenzione e della selezione. Rispetto a 10-12 anni fa, oggi mi rendo conto di ascoltare un sacco di musica e artisti in più, ma di ricordarmene sempre meno. E non dipende solo dalla mia precoce senilità: probabilmente tutta questa sovraesposizione, invece di aiutarmi a scegliere liberamente, mi ha reso in realtà solo più distratto e disorientato. Il rischio è quello di scegliere non chi ci piace di più o chi, secondo noi, ha più talento, ma chi è più bravo a catturare la nostra attenzione. E questo, ovviamente, non vale solo in campo musicale.
Ma torniamo alle fonti di guadagno. Appurato che il mercato discografico si regge sempre più sullo streaming e che, invece, le entrate di un artista vengono più che altro dalle esibizioni live, mi viene da pensare che forse non si è ancora capito bene come ridistribuire equamente i soldi. Secondo quanto dichiarato da Spotify, le case discografiche si sono assicurate circa il 70% dei proventi della piattaforma in diritti. Questo significa circa, per ogni artista, 0.0076 euro per ascolto. Queste cifre, però, sono relative agli utenti Premium, che sono sì in aumento, ma non tanto da compensare le perdite. Come iniziano ad evidenziare in tanti, il mercato dello streaming si sta saturando e il suo business model, dopo aver rivoluzionato l’intero sistema discografico, rischia di arrivare ad un punto morto. (Sarà interessante, a questo punto, vedere anche i risultati della più giovane Apple Music e soprattutto l’evoluzione della piattaforma di streaming gratuita di Amazon).
Di cosa vivono quindi gli artisti musicali oggi, visto che lo streaming ha un peso così rilevante, ma non paga poi tanto? Dipende principalmente da chi sei e poi da tanti altri fattori: che genere fai, dove vivi, che pubblico hai... Prendiamo ad esempio il genere trap. Lil Xan, sad-rapper californiano classe ’96, ha un patrimonio netto stimato di 3 milioni di dollari, dovuto in larga parte alla sua linea di merchandising Xanarchy.
Vittorio Farachi (redattore di Rockit.it), scrive che “la musica è il drive emozionale che porta i fan a comprare non tanto i cd, quanto magliette e felpe... le nuove generazioni vedono il supporto fisico non come necessario per la fruizione della musica, ma come un feticcio dell’artista”. In questo senso si spiegherebbe anche il successo del vinile, tanto di moda negli ultimi anni.
Per chi invece ha un target di non più giovanissimi, gli artisti che guadagnano di più, anche in Italia, sono quelli ancora legati ad economie più classiche legate al supporto fisico; a conferma del fatto che quello discografico è un sistema che non si è ancora rinnovato del tutto per quanto riguarda il modello di business.
ROCKONOMICS!
Qualcuno una volta mi ha detto: “I Beatles erano contro il materialismo”. È solo un falso mito. John e io ci sedevamo intorno a un tavolo e dicevamo: “Dai, adesso scriviamo una piscina”.
(Paul McCartney)
Come fa notare Alan Krueger, l’economia è alla base della musica che viene creata e prodotta. “Le forze economiche influenzano profondamente la musica che scegliamo, i dispositivi con i quali la ascoltiamo, i generi prodotti e la somma che paghiamo per assistere alle esibizioni dal vivo, per ascoltarla in streaming o comprare un disco”.
Un esempio citato dall'autore è quello del featuring, la collaborazione tra artisti dove il Luis Fonsi di turno (vedi il remix di "Despacito") è affiancato dalla mega-star tipo Justin Bieber. In questo meccanismo la star appare in genere all’inizio del brano, entro i primi 30 secondi; ovvero entro il tempo minimo necessario perché le piattaforme di streaming paghino le royalties del brano. In buona sostanza, gli incentivi derivanti dallo streaming online possono influenzare in modo diretto anche il modo in cui le canzoni pop vengono scritte, composte ed eseguite.
Alan Krueger, morto suicida nel marzo del 2019 all’età di 58 anni, è stato un famoso economista, professore di economia politica a Princeton ed ex consigliere economico di Barack Obama. Nel suo ultimo libro, “Rockonomics: A Backstage Tour of What the Music Industry Can Teach Us About Economics and Life” e in molte altre occasioni, ha avuto l’idea di utilizzare l’industria musicale come metafora dell’economia degli Stati Uniti, in cui si assiste alle difficoltà del ceto medio ed al crescente divario tra i ricchi e tutti gli altri.
In controtendenza rispetto al pensiero di Chris Anderson, ex-direttore di Wired, il quale, nel bestseller “La Coda Lunga”, prevedeva maggiori opportunità portate da Internet a chi rientrava nella cosiddetta “coda lunga delle vendite” (consentendo ad esempio ai piccoli produttori di intercettare i mercati di nicchia), nell’industria musicale sempre più consumatori gravitano attorno a un numero sempre più ristretto di superstar.
Nel mercato dei concerti, ad esempio, il primo 1% degli artisti, l’Olimpo delle superstar mondiali, si è portato a casa il 60% degli introiti totali (nel 1982 la stessa percentuale era del 26%) e il 5% al vertice della piramide si aggiudica l’85% del totale dei proventi. Lo stesso discorso vale per le vendite di dischi, dove “la “coda lunga resta lunga e solitaria, mentre tutta l’azione si svolge nella testa”.
Rockonomics è strutturato in 7 lezioni economiche fondamentali; le sette note dell’economia rock. La 4°, ad esempio, è intitolata “The Bowie Theory”, in onore al defunto Duca Bianco, il quale una volta disse: “La musica diventerà come l’acqua corrente o l’elettricità... Preparatevi a fare un sacco di tour, perché quella sarà la sola situazione straordinaria che resterà”. Questa osservazione sottolinea l’importanza strategica di avere qualcosa di unico da vendere oltre alla musica incisa: quello che gli economisti chiamano complementarities.
Un’altra lezione interessante è quella dedicata alla discriminazione di prezzo: in economia, la pratica di segmentare i consumatori in più fasce per imporre prezzi maggiori a chi è disposto a pagare di più. È la strategia utilizzata ad esempio da Taylor Swift (tanto per restare nell’ambito di quell’1% di superstar) quando pubblica i suoi dischi sulle piattaforme di streaming solo dopo aver venduto le copie alla sua fanbase più devota.
Musica ed economia sono una strada a doppio senso: l’industria musicale può contribuire a spiegare come funziona l’economia e gli economisti possono apprendere nuovi punti di vista sull’economia e sul comportamento umano, imparando nuove lezioni sulla sopravvivenza e sul successo dall’industria della musica.
Tutto questo, per il professor Alan B. Krueger, è l’economia rock.